Romanzo Quirinale, capitolo VII: l’atteso epilogo
La rielezione del presidente Sergio Mattarella ha messo un attesissimo punto a una delle vicende più controverse della storia repubblicana recente. Il suo secondo settennato ha sancito il trionfo della stabilità e della conservazione proprio quando la crisi della politica sembrava poter precipitare il paese in un’altra stagione d’incertezza e instabilità istituzionale.
Mattarella ha raccolto ben 55 ovazioni durante il suo giuramento davanti al Parlamento riunito in seduta comune. Numeri impressionanti e senza precedenti (Napolitano si fermò a quota 32 nel 2013, Ciampi a 19 nel 1999, Scalfaro a 14 nel 1992), che pure dicono moltissimo a proposito del grado di isteria diffuso nel nostro ceto decisore o del livello di spettacolarizzazione raggiunto dal discorso pubblico.
Se nove anni fa la rielezione di Giorgio Napolitano fu il frutto di un accordo comune tra i leader delle forze politiche (giunto peraltro in un contesto storico-politico decisamente meno sfavorevole), stavolta a pesare sull’esito della partita quirinalizia sono stati lo spettro del voto anticipato, la confusione per la girandola di candidati, la necessità di proteggere la maggioranza parlamentare e l’assetto politico delle coalizioni in vista del voto del 2023.
Una messe di applausi ha scandito il dipanarsi di un discorso inaugurale che per molti osservatori assomiglia a una vera e propria agenda per l’Italia. Linee guida destinate a proiettarsi ben oltre l’emergenza pandemica e l’eccezione rappresentata dal governo di Mario Draghi, per plasmare il paese del futuro. E che inaugurano un settennato presidenziale del tutto inedito, con la sua classe dirigente chiamata al doppio compito di ristrutturare la politica e attuare gli impegni del Pnrr.
A voler considerare il precedente di Napolitano, in realtà c’è poco di che stare allegri. Nel 2013 l’ex capo dello Stato credeva di aver imposto al Parlamento un programma di riforme politico-istituzionali come antidoto al declino, di cui poi però non si vide la concreta attuazione. L’unico tentativo di riforma organica della Costituzione, sostenuto da Matteo Renzi a costo delle sue stesse dimissioni, andò incontro alla sconfitta del referendum di fine 2016, lasciando così il sistema invariato.
Dopo di esso, solo la Legge per la riduzione del numero dei Parlamentari, votata dal governo Conte I, ha modificato parte della nostra Costituzione.
Ciò spiega come mai l’attuale presidente abbia esibito una certa cautela parlando di riforme, eccezion fatta per un paio di punti assai sensibili. In primo luogo, c’è da vincere la madre di tutte le battaglie, quella dell’ordinamento giudiziario. Un testo è all’esame della Camera da più di un anno, ma ciò non ha impedito ai parlamentari riuniti di tributare uno dei loro più scroscianti applausi a Mattarella proprio sul tema della riforma giustizia – come se la cosa non li riguardasse direttamente. Oggetti del contendere sono come risolvere il problema delle porte girevoli fra politica e magistratura e, soprattutto, quale sia la migliore legge elettorale per nominare i membri del Csm.
Il secondo punto dirimente attiene al ruolo del Parlamento nella democrazia italiana e alla sua centralità perduta, figlia dell’uso dei decreti-legge e dell’abuso delle votazioni di fiducia da parte dei governi. Montecitorio e Palazzo Madama lamentano da tempo di non essere più messi in condizione di lavorare o di esprimersi compiutamente sui provvedimenti dell’esecutivo, soprattutto per mancanza di tempo (vedi le leggi di Bilancio). E anche quando il tempo ci sarebbe (riforma della Giustizia), le camere in realtà dimostrano di non essere in grado di pronunciarsi sui progetti di legge più importanti.
Ma la rielezione di Mattarella ci offre almeno altri due rilevanti spunti di riflessione. Da un lato bisogna domandarsi fino a che punto sono state ponderate le implicazioni di un suo secondo settennato, considerato che se il presidente rimarrà al Colle per altri sette anni fino al 2029 (difficile, ma non impossibile), nel frattempo il sistema parlamentare italiano avrà sperimentato un doppio salto di legislatura (2023 e 2028). Ciò potrebbe sancire la potenziale conclusione della carriera politica della gran parte di coloro che ieri sedevano a Montecitorio durante il suo secondo discorso inaugurale, dopo averlo eletto.
Cosa questo significhi per la qualità della nostra democrazia è un punto aperto su cui converrebbe interrogarsi. Tanto più se dovesse avverarsi proprio con Mattarella la profezia che molti paventavano si sarebbe verificata con l’elezione di Draghi: il semipresidenzialismo di fatto della nostra Repubblica.
In fondo l’attuale capo dello Stato ha davanti a sé un mandato pieno di sette anni; è stato eletto non grazie ai leader politici ma dal basso, con la spinta fuori controllo dei singoli parlamentari; gode di una popolarità che non si era mai vista prima nel paese, proprio perché i partiti sono in crisi; ha la seria prospettiva di tornare a essere decisivo negli equilibri dei prossimi esecutivi se, come sembra, le elezioni del 2023 regaleranno all’Italia un altro parlamento senza reali vincitori.