L’obiettivo della Russia e il negoziato con gli Usa

Il 16 febbraio era stato indicato dall’intelligence degli Stati Uniti come il giorno del potenziale attacco della Russia contro l’Ucraina.

L’invasione sarebbe scattata con bombardamenti aeronavali dai distretti militari occidentale e meridionale russo, coinvolgendo molto probabilmente anche la Bielorussia. Dopodiché l’esercito federale avrebbe conquistato Kiev nel giro di una o al massimo due settimane.

Questo fosco scenario di produzione americana (ancora) non si è verificato, benché Mosca stia ammassando da svariate settimane truppe e armi in prossimità della sua frontiera sud-occidentale – dove adesso stazionerebbero quasi 200 mila militari pronti a marciare.

In attesa di essere smentiti dagli eventi – in fondo i conflitti sono spesso innescati dagli imprevisti: così avvenne per la guerra in Vietnam, dopo l’incidente del Tonchino – è lecito domandarsi quale sia il reale obiettivo dei russi e capire perché l’opzione armata sia la meno realistica.

Mosca vuole rientrare nel sistema di sicurezza europeo da cui è stata esclusa dal 1917 in poi, salvo i quattro anni di forzata cooperazione con il blocco occidentale per sconfiggere il Terzo Reich fra il 1941 e il 1945. Il presidente Vladimir Putin ha l’ambizione di riportare la Russia in un nuovo concerto europeo fondato sull’equilibrio delle potenze e il suo modello è lo zar Alessandro I. Traguardo probabilmente utopico, che pure muove dalla considerazione che il mondo russo non può fare a meno, sotto ogni profilo, dell’Europa.

Sul piano militare, poi, gli strateghi del Cremlino sono perfettamente consapevoli che un attacco in grande stile contro l’Ucraina porterebbe a una (relativamente) facile vittoria sul campo, ma esporrebbe l’esercito occupante al logorio della successiva guerriglia nazionalista ucraina. Prevedibilmente sostenuta ed equipaggiata da americani, britannici, baltici e polacchi.

Nel frattempo il regime di Putin verrebbe colpito e forse persino travolto dalla rappresaglia atlantica e dalle sanzioni occidentali. Senza considerare l’intima connessione esistente sotto il profilo identitario, storico e linguistico fra i russi e gli ucraini, che rischia di trasformare l’invasione in una vera e propria guerra civile. Con effetti tutti da scoprire sull’opinione pubblica russa.

Per questo i russi sanno che la vittoria vera potrà essere ottenuta solo senza combattere. La pressione militare continuerà finché Kiev non sarà rientrata nella loro sfera d’influenza. Obiettivo di medio-lungo periodo, che oggi presuppone la neutralizzazione della strategica marca frontaliera – magari inchiodandola nella terra di nessuno fra la Russia e la Nato. Salvo poi riassorbirla, almeno parzialmente, quando gli ucraini si saranno resi conto che l’Occidente non intende morire per loro.

A tale proposito non è un caso se il presidente ucraino Volodymyr Zelensky stia segnalando da mesi agli americani che la loro enfasi sulla minaccia russa sta seminando il panico interno, spinge capitali e capitalisti (oligarchi) alla fuga e convince i presunti amici a impegnarsi sempre meno nel sostenere la causa dell’Ucraina. Più dura l’allarme Usa e occidentale sulle intenzioni di guerra russe, più il regime ucraino rischia la destabilizzazione.

Non migliora le cose il fatto che Washington abbia spostato il personale diplomatico da Kiev a Leopoli. Una mossa che rende alla perfezione il timore degli americani verso un’eventuale spaccatura dell’Ucraina: la città galiziana potrebbe diventare la capitale di un governo ucraino in esilio, una volta caduta Kiev in mano ai russi o, meno improbabile, a un regime fantoccio.

Dopo essersi resi conto di essersi spinti troppo in profondità, adesso gli americani stanno ragionando su come arretrare senza innescare un effetto domino in Europa. Tradotto: come negoziare con Mosca senza perdere pubblicamente la faccia. Se è vero che la retorica della libertà delle democrazie stabilisce che non si può certo impedire a Kiev di volere la Nato, qualora si rendessero conto di essere rimasti soli potrebbero essere proprio gli ucraini a volervi rinunciare.

In questo senso l’escalation russa ha offerto agli americani una via d’uscita. Se Kiev cedesse, Washington potrebbe continuare a negoziare con Mosca l’estensione delle relative sfere d’influenza europee. Per questo ha portato via il personale dall’ambasciata, come pure gli addestratori militari e gli osservatori schierati sul fronte del Donbas.

Gli Stati Uniti hanno mostrato al mondo di essere seri su ciò che vanno ripetendo da settimane: non difenderanno l’Ucraina. Base crudele su cui nei prossimi mesi continueranno a trattare con la Russia.

 

In questa crisi un altro fattore d’interesse è l’annunciata visita a Mosca del primo ministro italiano Mario Draghi. Forse l’unico presidente del Consiglio a essersi recato nella capitale russa prima che a Washington: visto il profilo atlantista del nostro premier, è improbabile che il viaggio non sia stato autorizzato preventivamente dagli americani.

L’Italia è uno dei paesi più russofili del Vecchio Continente, oltre che un formidabile acquirente del gas di Mosca. Il Cremlino non ha ancora confermato la data dell’incontro Draghi-Putin, ma è un fatto che il nostro capo del governo si candida a giocare un ruolo di primissimo piano per la difficile ricomposizione della crisi.