Le ultime battute di campagna elettorale. Il senso dell’atlantismo
La diffusione del dossier dell’intelligence statunitense sui finanziamenti russi alle forze politiche di Paesi esteri irrompe nel bel mezzo della campagna elettorale a poco più di una settimana dal voto, mandando in fibrillazione i partiti. Secondo il rapporto americano, infatti, la Russia avrebbe speso dal 2014 ad oggi, più di 300 milioni di dollari per finanziare partiti politici di diversi Paesi stranieri. Se la Russia abbia allora finanziato o meno qualche partito italiano – e nel caso quale – è la domanda che più preme sul dibattito nostrano e che minaccia un terremoto politico. Ma a tranquillizzare in parte gli animi è l’intervento del Copasir che ha escluso, anche attraverso l’audizione dell’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica Franco Gabrielli, la possibilità che l’Italia sia per ora tra i Paesi coinvolti. Dagli elementi forniti nel corso dell’audizione infatti «non sono emersi profili concernenti la sicurezza nazionale del nostro Paese», ha dichiarato il presidente del Copasir Adolfo Urso.
In questi giorni, insomma, il baricentro della campagna elettorale sembra essersi spostato all’estero. La parola chiave è sempre la stessa: atlantismo. Un valore che in questo frangente non può essere messo in discussione. Lo sa bene la Meloni, che ha spedito lo stesso Urso a Washington per tranquillizzare il Dipartimento di Stato americano sulla continuità dei buoni rapporti in caso di vittoria, rafforzando la missione con un’intervista di “presentazione” rilasciata al The Washington Post.
Lo sa Enrico Letta, che, forte di una reputazione più consolidata all’estero, sta provando a far tentennare l’affidabilità internazionale dell’avversaria, rispolverando alcuni pattern euroscettici della passata dialettica di Fdi e le affinità del centrodestra con alcuni interlocutori “scomodi” come Orbàn e Morawiecki. E lo sa anche Salvini, che da questo punto di vista è il più esposto a dichiarazioni controverse e a ripetuti chiarimenti con alleati e non. Il risultato di queste dinamiche? Sicuramente letture come quella di Stefano Folli sulla stampa di venerdì in cui si evidenzia un sentiment USA poco incline a vedere in futuro Salvini nella squadra di governo. Possibile che le ingerenze statunitensi sulla politica italiana arrivino a tanto? Il futuro prossimo scioglierà questi dubbi, ma di certo la presidentessa del consiglio in pectore, Giorgia Meloni, non dà l’impressione di voler cedere a condizionamenti esterni. Le sue posizioni le ha dichiarate, l’atlantismo è garantito, e per il resto il suo lessico ha da tempo virato su una retorica decisamente più istituzionale. Come si è visto nel dibattito pubblico con Letta, avvenuto lunedì sera sul Corriere.it. I due leader non si sono attaccati duramente e il duello si è svolto all’insegna di un sostanziale fair play. Sono emerse le distanze politiche su temi quali Pnrr, diritti civili, politiche migratorie, presidenzialismo e adozioni, con blande critiche reciproche, nessuna delle quali particolarmente pungente. Il Pd sta recuperando un po’ di fiducia, tanto da spingere Dario Franceschini a dichiarare che «il vento sta cambiando e ci sono tutte le condizioni per una rimonta», ma, in attesa di eventuali nuove scosse esterne provenienti dai dossier degli 007 americani, al Nazareno si attende l’esito elettorale per capire se aprire una nuova fase congressuale nel Pd. Si fanno già i nomi (Bonaccini, Amendola) ma sono solo indiscrezioni, che rivelano certamente l’esigenza del principale partito di centrosinistra di aprire un dibattito interno sulla sua identità. Quel che sembra invece certo è che i prossimi giorni saranno cruciali per i partiti per convincere i moltissimi indecisi della concretezza delle proprie idee, lanciare le ultime proposte e convertire l’entusiasmo dei propri sostenitori in voti concreti.