Una settimana tra pragmatismo e sfide democratiche

Se c’è un tratto distintivo della politica italiana, è la sua capacità di muoversi su più piani contemporaneamente, spesso senza che questi si tocchino davvero. La settimana appena trascorsa ne è la conferma: tra provvedimenti governativi, mobilitazioni, celebrazioni istituzionali, il quadro che emerge è quello di un Paese in movimento, ma non sempre nella stessa direzione.

A Palazzo Chigi, il Consiglio dei Ministri ha inaugurato la settimana con un’agenda fitta di provvedimenti che segnalano la volontà del Governo di tenere saldamente in mano il timone della macchina statale, soprattutto su due fronti: infrastrutture e servizi essenziali. Il decreto-legge varato lunedì tenta di garantire continuità e ordine nella gestione delle grandi opere e del trasporto pubblico, ma anche – ed è forse il punto più delicato – nella traduzione concreta del PNRR. Dopo mesi di ritardi e rimpalli tra Roma e Bruxelles, l’Esecutivo sembra voler recuperare terreno non tanto con nuovi fondi, quanto con norme operative più snelle e una governance meno frammentata.

Accanto alla questione infrastrutturale, spicca il disegno di legge sui livelli essenziali delle prestazioni (LEP). Non è un tema che accende le piazze, ma resta centrale nella discussione sull’autonomia differenziata e sulla reale equità tra cittadini di regioni diverse. Determinare che cosa sia “essenziale” in sanità, istruzione, trasporti o assistenza sociale non è un’operazione neutra: implica scelte politiche profonde, che rivelano la visione dello Stato e il grado di coesione che si vuole (o si può) garantire.

In parallelo, il Governo si avventura anche sul terreno della riforma universitaria, con l’intenzione – dichiarata – di superare l’Abilitazione Scientifica Nazionale. Il sistema attuale, spesso criticato per la sua opacità e per una burocratizzazione eccessiva dei percorsi accademici, è il bersaglio di un progetto che punta alla semplificazione e, si spera, a una maggiore meritocrazia. È un passaggio importante, ma sarà cruciale capire se questa riforma sarà sostenuta da risorse e visione o se si risolverà nell’ennesima correzione marginale a un sistema in sofferenza.

Fuori dalle stanze governative, la politica si è fatta sentire nelle piazze. A Roma, la “maratona contro l’astensionismo” organizzata dalla CGIL e dai comitati referendari ha portato alla ribalta un tema che pare scomparso dal radar della maggioranza: la partecipazione democratica. I quesiti referendari del 8 e 9 giugno, incentrati su lavoro e cittadinanza, sono stati al centro di un confronto acceso non tanto sui contenuti, quanto sulla legittimità stessa del voto. Il fatto che il Governo e i partiti che lo sostengono abbiano scelto di non promuovere attivamente la partecipazione al voto è per la minoranza un segnale politico da non sottovalutare: evitare un confronto diretto su questi temi delicati, puntando piuttosto su una strategia più prudente. Tuttavia, questo approccio che potrebbe essere conveniente nel breve periodo, soprattutto alla luce dei sondaggi, nel lungo termine rischia di ridurre l’entusiasmo e la fiducia dei cittadini verso gli strumenti democratici di partecipazione.

A fare da contrappunto a questi scontri più o meno ideologici, si è aperta lunedì a Palazzo Ducale la quarta edizione del Festival delle Regioni. La partecipazione del Presidente della Repubblica ha conferito all’evento un tono solenne, ma non va sottovalutata la sua funzione politica: in tempi di crescente frammentazione territoriale, riaffermare la dignità delle autonomie locali all’interno di una cornice unitaria è anche un modo per spegnere, o almeno contenere, le derive centrifughe che di tanto in tanto affiorano nel dibattito pubblico.