Venti anni dopo l’11 settembre

I talebani hanno scelto il ventesimo anniversario dall’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono per ufficializzare il nuovo governo dell’Afghanistan. Una beffa micidiale per quanti gli mossero guerra dopo i fatti dell’11 settembre.

Emersi vittoriosi dalla loro battaglia ventennale contro gli eserciti occidentali, adesso gli “studenti del Corano” sono chiamati a dismettere i panni del guerrigliero terrorista per indossare quelli dello statista. Nei prossimi mesi dovranno infatti ostentare un volto più moderato e forse anche praticarlo, nella consapevolezza di non poter sopravvivere senza gli aiuti internazionali e di dover gestire un paese molto complesso in cui gruppi etnici, culturali e politici di varia natura si affrontano da sempre l’uno contro l’altro per il controllo del territorio.

Contrariamente a quanto lasciato intendere da certa vulgata sensazionalista – per cui gli eventi afghani capiterebbero contro la volontà della popolazione – i talebani sono infatti l’espressione diretta di una delle più importanti e radicate etnie del paese. Si tratta dei pashtun, dominanti nelle province meridionali e di certo non un accidente impiantato dall’esterno.

Impossibile comprendere la dinamica di quanto accaduto nelle ultime settimane a Kabul senza riflettere su questo semplice dato. Pure se molti clan afghani non amano gli “studenti”, sicuramente li preferiscono a un regime creato artificiosamente dagli americani e dai loro alleati occidentali. Naturalmente ciò non toglie nulla alla formidabile complessità che sarà governare un paese che di fatto non esiste.

Molto è stato detto e scritto in queste settimane a proposito del fantomatico tramonto dell’Occidente e della fine dell’impero americano per come lo abbiamo imparato a conoscere negli ultimi decenni. Al di là di ogni valutazione ideologica o estemporanea sull’esito della campagna militare, il dato che conta è che Washington era rimasta fin troppo in Asia centrale – un teatro di secondaria rilevanza che non ha nessuna possibilità di incidere sulla competizione per la supremazia planetaria.

Venti anni fa gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan sull’onda della sensazione di panico dovuta allo shock terrificante che fu per loro l’11 settembre. Prima degli attacchi erano l’unica superpotenza al mondo, che esisteva senza rivali e in una condizione di serenità assoluta rispetto a possibili aggressioni dall’esterno. Così non era.

Lo shock fu tale da scatenare una guerra priva di logica come fu appunto quella contro il terrorismo. Che, per inciso, è un metodo bellico a disposizione di chiunque a seconda delle sue necessità, di certo non un nemico da abbattere. Fu quello il principio di guerre logoranti e prive di senso strategico: dopo l’Afghanistan è arrivato l’Iraq e poi molti altri interventi logoranti in giro per il mondo.

Oggi l’obiettivo degli Stati Uniti è di lasciare ai propri antagonisti asiatici l’incombenza di occuparsi di un territorio tanto complesso, segnato da un’orografia micidiale e conteso tra etnie distinte, dove forme di violenza e di guerriglia saranno inevitabili negli anni a venire.

La Cina teme che l’instabilità afghana possa travolgere il Pakistan, terminale cruciale delle nuove vie della seta. La Russia guarda con preoccupazione alla possibilità che il caos locale si propaghi fino alle sue frontiere meridionali, specialmente da quando ha perso gli strumenti per contrastarlo. Anche l’Iran è vulnerabile, perché sa di non poter dominare l’Afghanistan pur essendone la potenza di riferimento culturale per le sue principali etnie.

È su questo punto che in futuro dovremo valutare le conseguenze del ritiro occidentale da Kabul. Nel frattempo proviamo a mettere da parte l’emozione, che oltre a non farci cogliere il senso reale degli eventi afghani in queste stesse ore porta alcuni di noi a sopravvalutare persino il ricordo dell’11 settembre. Fino al paradosso di chi riesce a elevarlo a improbabile snodo capace di cambiare per sempre i destini di Europa e Stati Uniti.