Lo stato di emergenza come antidoto all’instabilità politica
Il governo e la sua frastagliata maggioranza parlamentare sono allo scatto finale per concludere nelle prossime settimane o, al più tardi, entro la fine dell’anno le partite più importanti di questa fase della Legislatura.
Reddito di cittadinanza, revisione di “quota 100”, legge sulla concorrenza, poi il fisco e infine la legge di Bilancio. Senza dimenticare le tante altre riforme collegate all’attuazione del Pnrr. Argomenti che nel complesso minano alla radice la stabilità della maggioranza e consumano le fibre di partiti già deboli e nervosi, rendendo sempre più faticosa la quotidiana opera di mediazione del primo ministro Mario Draghi.
Per queste ragioni a nove mesi dalla sua (trionfale) entrata in carica, oggi l’esecutivo mostra i segni di un pericoloso logoramento. Con annesso rallentamento dell’attività governativa. L’urgenza di chiudere rapidamente i dossier più impegnativi si lega naturalmente al rebus del Quirinale, che aleggia come un macigno sulla politica italiana tutta. Per scegliere il successore di Mattarella, il cui mandato scade il 3 febbraio, i grandi elettori saranno chiamati a raccolta in Parlamento durante la prima settimana di gennaio.
In settimana la presa di posizione di Mattarella contro la sua rielezione ha aumentato la confusione nei partiti e, se possibile, l’allarme nel governo. Visto che a prescindere dall’esito del risiko del Colle l’anno nuovo porterà con sé un’alternativa secca – elezioni anticipate o fine naturale della legislatura nel 2023 – il timore di Palazzo Chigi è che in entrambi i casi i partiti opteranno per la modalità da campagna elettorale, nel tentativo di recuperare quote del consenso perduto dopo la paralisi degli ultimi anni.
Ma se così fosse la conseguenza più probabile sarebbe un ulteriore rallentamento nell’esecuzione dell’agenda di governo, con annesso rischio-paralisi in un anno che si annuncia decisivo per il rilancio del paese e la “messa a terra” del piano di ripresa. Inoltre, a livello generale, si tratterebbe dell’ennesima conferma che il sistema-Italia tende alla stasi e al “non-governo”. I segni di dette tendenze sono già ravvisabili nelle difficoltà sperimentate dall’esecutivo in queste settimane.
Così, lo spettro della paralisi politica in vista del conclave laico di gennaio combinato alla necessità (immediata) di compattare una maggioranza a rischio implosione spiegano perché, nel frattempo, nel dibattito pubblico sia tornato in auge con forza il tema dell’estensione dello stato di emergenza.
Fatta salva la ripartenza dei contagi e la quarta ondata che sta dilagando nel Vecchio Continente, appare evidente che nei calcoli del governo il suo prolungamento rappresenta lo strumento più valido per garantire la stabilità del paese, proteggere la ripresa economica e la salute dei cittadini, ma soprattutto per imporre un’altra assunzione di responsabilità alle varie anime della maggioranza in un momento di loro scollamento.
Se è vero che l’utilità dello stato di emergenza sta nella sua capacità di velocizzare gli interventi contro il virus, non è un mistero che anche nella coalizione parlamentare che sostiene il governo ci sia chi lo consideri un atto autoritario. Per questo la scelta creerà malcontento e polemiche: per esempio, il capo della Lega Matteo Salvini ancora nelle scorse settimane dava per scontata la fine dello stato d’emergenza e anche dell’uso del certificato verde all’inizio del nuovo anno.
Per i maligni si tratterebbe inoltre di un’espediente del governo per allontanare lo scenario delle elezioni anticipate e blindare la posizione del primo ministro in vista della fase d’instabilità politica legata all’elezione del capo dello Stato. Difficile stupirsene. La cronaca delle ultime settimane ci ricorda infatti che la quota di irriducibili no vax non accenna a calare e che le proteste di piazza contro il certificato verde non si fermano.