Uno sciopero di minoranza
È stato definito lo “sciopero generale di minoranza”. Dalla serrata che avrebbe dovuto paralizzare il paese come avveniva ai tempi gloriosi della Cgil di Sergio Cofferati, all’operazione politica di retroguardia condotta sulle macerie dell’idea che fu del sindacato.
Cgil e Uil sono scese in piazza giovedì (senza l’appoggio della Cisl) per attaccare una manovra di Bilancio reputata inadeguata rispetto alle esigenze del paese e rivendicando un’adesione roboante con picchi dell’80 o del 100 per cento in alcune realtà d’Italia. Opposto invece il dato registrato dalle imprese, per cui avrebbe partecipato alle proteste soltanto il 5 per cento dei lavoratori.
Se l’affluenza è stata come da tradizione oggetto di narrative antitetiche, della giornata di giovedì contava soprattutto il contesto.
Maurizio Landini e Pier Paolo Bombardieri non hanno indetto la protesta contro il presidente del Consiglio Mario Draghi, ma si sono scagliati contro i partiti che ne sostengono l’esecutivo. Non hanno neppure sentito la necessità di presentare piattaforme o rivendicazioni specifiche che animassero la giornata, come se al tempo del Pnrr o della transizione ecologia non sia diventato impellente dibattere di futuro delle relazioni industriali.
Davvero emblematico poi lo slogan indirizzato alle forze politiche: “Noi abbiamo riempito le piazze, voi avete svuotato le cabine elettorali”. Segno che forse, ad animare la serrata, c’era soprattutto la volontà di adoperarsi per occupare un vuoto di consensi lasciato scoperto dall’adesione della quasi totalità dei partiti al governo Draghi. Logicamente sul banco degli imputati sono finiti per primi Pd e M5s, le forze percepite come (teoricamente) più vicine al mondo del lavoro e alle sue istanze.
C’è chi lo ha interpretato come un atto di posizionamento post-populista, finalizzato a catturare il favore dei diseguali e degli astensionisti nell’anno preelettorale. Sotto questo profilo, difatti, sia Cgil che Uil hanno spiegato di voler dare voce al disagio sociale e agli italiani in sofferenza perché colpiti dalle conseguenze economiche della pandemia.
Ma il fatto che il tavolo con il governo sulle pensioni della prossima settimana fosse già in agenda, che la finanziaria rimarrà esattamente com’è e che la prova di forza non ha spostato gli equilibri di potere nel paese alimenta un grande dubbio. Perché indire lo sciopero generale – ossia l’arma più potente a disposizione di una sigla sindacale – in assenza di grandi risultati da raggiungere?
Per metterla altrimenti, il rischio di aver assistito a uno show di forza fine a sé stesso è molto alto. Così come di dover prendere atto una volta per tutte che il sindacato non è più in grado di trasferire la sua comunque rilevante potenza aggregatrice in un qualunque progetto capace di contribuire più alla crescita socioeconomica d’Italia che alla popolarità di qualche suo pugnace leader.
A volerle combattere, le battaglie di merito non mancano neppure. Tanto per citarne una assai rilevante, il nostro paese è attanagliato da decenni da un gravissimo problema salariale che è a sua volta il frutto della bassa crescita del pil nazionale e dell’altrettanto misera produttività del lavoro.
L’idea di poter redistribuire i salari a colpi di leggi da parte di alcuni governi (salario minimo, redditi di cittadinanza e maggiori imposte ai ceti più abbienti) si è rivelata un’illusione. Tutto ciò apre una prateria all’azione di un sindacato che volesse davvero farsi carico di un’istanza così rilevante per il futuro del paese, oltre che per la solidità del suo rilancio. Con conseguenze non meno importanti sulla propria presa nel corpo sociale.
L’alternativa è un lento scivolamento nell’irrilevanza o, peggio ancora, la sua trasformazione nel megafono di un qualche pezzo della società segnato da biche torsioni populiste.