Accordo sulla riforma della giustizia – parte terza
Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo testo sulla riforma della Giustizia, rimessa prepotentemente in discussione dai tormenti del M5s (arrivato persino a minacciare l’astensione in Cdm pur di vedere accolte le proprie istanze) che a loro volta hanno rinfocolato le richieste di modifica da parte delle altre forze di maggioranza.
Dopo una trattativa di tre settimane dai tratti anche molto aspri, la sintesi della riforma offerta dalla ministra Marta Cartabia consente a ciascun partito di poter cantare vittoria con i propri elettori e di scaricare verso l’esterno le tensioni che si erano accumulate pericolosamente in seno alla maggioranza nel corso degli ultimi giorni di febbrile negoziato.
Così il M5s si congratula con sé stesso per aver ottenuto un’improcedibilità più lunga per i reati di mafia; la Lega per la sua estensione ai reati di droga e di violenza sessuale; il Pd festeggia per la presenza della norma transitoria sull’entrata in vigore della riforma; Forza Italia celebra un provvedimento reputato finalmente garantista; Italia Viva accoglie con soddisfazione il colpo di spugna destinato a cancellare la precedente riforma Bonafede.
Giunti a questo punto il primo ministro Mario Draghi può dunque confidare nell’approvazione del testo prima della pausa estiva, puntando al massimo dei consensi in Parlamento ed evitando l’insidioso redde rationem in Aula che si sarebbe reso necessario in caso di mancato accordo nella maggioranza. Un rinvio o peggio una bocciatura della riforma avrebbero prodotto danni incalcolabili sulla credibilità dell’Italia alla viglia dell’arrivo della prima tranche da 25 miliardi dei fondi europei, oltre che in un momento in cui l’economia sembra finalmente tornata a crescere con un certo vigore dopo la crisi dell’ultimo anno e mezzo.
Un’eventuale prova di forza parlamentare avrebbe esposto il Movimento all’ennesimo rischio-spaccatura, mettendo l’ala ministeriale rappresentata da Luigi Di Maio contro quella più battagliera raccolta attorno al nuovo leader Giuseppe Conte. Pur avendo fallito il doppio obiettivo di affossare la riforma o di modificarne pesantemente l’impianto, l’ex primo ministro è riuscito a conseguire l’importante obiettivo di tenere assieme i 5Stelle in un momento di grave crisi interna – benché le sue presunte doti di demiurgo capace di dare risposta alle mille contraddizioni del Movimento sono uscite pesantemente ridimensionate dal negoziato con il governo.
Chi esce veramente rafforzato dalla battaglia sulla giustizia è invece il primo ministro Draghi, che alla vigilia del semestre bianco porta a casa un risultato politico fondamentale e consolida ulteriormente la propria leadership a Palazzo Chigi dopo aver superato indenne il fuoco incrociato dei partiti. Nondimeno i prossimi mesi saranno faticosi e carichi di insidie, tanto più quando l’impossibilità di sciogliere le camere in vista dell’elezione del capo dello Stato darà nuovi argomenti e spunti di polemica a forze politiche perennemente in cerca di visibilità e di quote dell’influenza perduta.
Così il grande interrogativo che aleggia sul futuro del governo sarà proprio quello di capire fino a che punto Draghi potrà tollerare quella che si preannuncia sin d’ora come una stagione ricca di turbolenze e in cui il Parlamento dovrà necessariamente adottare una serie di provvedimenti-chiave per il futuro del paese.
La grande novità che emerge dal tira e molla sulla giustizia è il fatto che per la prima volta nella storia repubblicana i partiti sono costretti a negoziare con un primo ministro disposto a lasciare l’incarico a Palazzo Chigi se costretto a farlo, senza puntare su elezioni anticipate oppure cercare eventuali “responsabili” fra i banchi parlamentari con l’obiettivo di tenere in piedi la coalizione in improbabili arrocchi al potere.
Meglio inchiodare gli attori del sistema alle loro responsabilità partigiane, nella lucida consapevolezza che nessun leader o gruppo politico potrebbe pensare di sopravvivere alla caduta del terzo governo della legislatura, né tantomeno essere in grado di costruire alcunché per il dopo.