Il decisionismo di Draghi e la confusione dei partiti

Mentre continuano gli scontri a Mariupol e nel Donbass, una notizia si fa spazio nelle cronache nostrane: l’Italia inizia a valutare l’invio di armi pesanti a Kiev per sostenere la resistenza ucraina. E Draghi, non appena guarito dal Covid, valuterà se recarsi anche in visita dal Presidente ucraino Volodymyr Zelensky per discutere delle prossime trattative di pace. L’indirizzo del Presidente del Consiglio assume un contorno sempre più definito: lavorare a una pace che non prescinda da quel “cessate il fuoco” per l’ottenimento del quale è necessario non indebolire militarmente l’Ucraina. Una presa di distanze da Mosca, che sembra diventata definitiva dopo le vicende di Bucha, confermata anche dalla determinazione e dalla velocità con la quale si sta lavorando alla diversificazione delle forniture di gas.

La dialettica diplomatica dell’Italia, in questa fase, sembra molto più allineata a quella costruttiva di Germania e Francia, almeno la Francia di Macron. E, non ultimo, della Turchia. La scelta delle parole, in fasi delicate come quella attuale, è di fondamentale importanza, e gli atteggiamenti di sfida del Presidente americano Joe Biden, seguito dal Premier inglese Boris Johnson, nei confronti di Putin hanno dato l’impressione di “gettare benzina sul fuoco”.

L’atlantismo eurocentrico di Draghi è il risultato di una strategia politica evidentemente poco condizionata dalle logiche del consenso, quelle logiche che in altri tempi hanno disturbato, o se non altro distratto, i criteri del buon senso e rallentato gli ingranaggi del decisionismo.

La metodologia di gestione del fronte interno ne è una dimostrazione. In settimana la Camera dei Deputati ha votato entrambe le risoluzioni sul Documento Economia e Finanze e ha iniziato a discutere la riforma della giustizia. Su entrambi i fronti i nodi sono stati sciolti con un sostanziale accordo delle forze di maggioranza, nonostante gli iniziali tentennamenti.

Sul Def è stata “neutralizzata” l’opposizione della Lega, scongiurando il rischio di un aumento delle tasse, e introducendo misure volte a contenere l’aumento dei prezzi dell’energia anche mediante l’utilizzo di flessibilità di bilancio. È stato prorogato il bonus edilizio del 110% e il governo si è impegnato a proseguire nell’azione di incremento delle risorse disponibili per il potenziamento del sistema sanitario nazionale.

Sulla giustizia i partiti di maggioranza hanno siglato un’intesa che fa ben sperare per l’approvazione finale. Nessun emendamento sostanziale è stato presentato e non sarà nemmeno necessaria la fiducia, nonostante la forte opposizione dell’Associazione nazionale magistrati, che ha tuonato contro una riforma che «guarda molto al passato e accentua una strutturazione gerarchica anche degli uffici del giudice».

Il decisionismo “gentile” di Draghi fa da contraltare alla confusione che debilita internamente i partiti, con gli occhi meno puntati verso il cielo, quanto più fissi a terra, anzi sul territorio, vista l’imminente tornata elettorale amministrativa del 12 giugno. Un appuntamento che prelude a quello ancora più importante del prossimo anno, con le elezioni politiche.

A meno di due mesi dall’election day del 12 giugno, il puzzle dei candidati alle amministrative si va riempiendo, sebbene restino ancora vuote caselle importanti, soprattutto per il centrodestra. Al voto per le comunali andranno circa 950 comuni, ma il focus sarà sui 26 capoluoghi di provincia (di cui 4 capoluoghi di Regione: Genova, L’Aquila, Catanzaro e Palermo).

A rischiare di più è il centrodestra, la cui coalizione controlla 18 su 26 giunte uscenti nei capoluoghi di Provincia chiamati al voto (3 sindaci uscenti sono della Lega, 3 di Fratelli d’Italia, 6 di Forza Italia, 4 di indipendenti di centrodestra, uno di Coraggio Italia e uno di Cambiamo) mentre il centrosinistra controlla solo 5 amministrazioni uscenti (3 del Pd e 2 indipendenti di centrosinistra, zero per l’M5s). Solo tre comuni vengono, invece, da giunte con Liste civiche.

Come se non bastasse, il dibattito interno è “agitato” anche da due casi che non hanno mancato di generare imbarazzo: il Russiagate e la visita del Presidente ungherese Viktor Orbán a Roma.
Il complotto che sarebbe stato orchestrato da Mosca per condizionare la campagna elettorale per le elezioni presidenziali americane del 2016 è tornato in auge in settimana, avendo acceso uno scontro tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi. A innescare la contesa sono stati i nuovi sviluppi ricostruiti dal quotidiano Repubblica  sulla missione della delegazione Usa in Italia durante il Governo Conte quando si indagava sulle eventuali responsabilità dell’esecutivo di Renzi nel “Russiagate”. Si racconta di una cena tra l’allora segretario alla Giustizia di Washington Bill Barr e l’ex capo del Dis Gennaro Vecchione di cui Conte non aveva mai riferito nulla al Copasir. Le continue schermaglie tra Conte e Renzi sui rapporti intrattenuti dall’uno e dall’altro con le amministrazioni americane quando erano a capo dell’esecutivo sono state interrotte solo dal Copasir, che ha deciso di congelare l’inchiesta: anche se la versione ufficiale ha giudicato «i nuovi elementi non sufficienti per riaprire il caso», si può immaginare che i costi politici dell’operazione sarebbero stati troppo alti da affrontare ad oggi, date le tensioni nazionali ma, soprattutto, internazionali.

Quanto alla visita di Orbán, ha destato scalpore il fatto che il Presidente sovranista ungherese neorieletto abbia incontrato Matteo Salvini ma non la leader di FdI Giorgia Meloni. Se da un lato, quindi, è stata rinnovata la sintonia tra Salvini e Orbán su diversi temi, quali la lotta all’immigrazione irregolare, l’adesione al progetto di un “centrodestra europeo” e la difesa dei valori occidentali, dall’altro è emerso come la politica estera continui a dividere il centrodestra italiano, così come era accaduto recentemente anche con le elezioni francesi.

La ricerca del consenso, per il momento estranea alle strategie politiche di Draghi, si rivela spesso il principale ostacolo al decisionismo, al punto da incidere negativamente sul raggiungimento dei risultati, e Draghi, con gli obiettivi tassativi del Pnrr da rispettare, non può permettersi di fallire, per cui continua a fare leva su tutta la sua ragion pratica per rimanere immune ai bizantinismi da prima e seconda Repubblica.

Tuttavia nel giorno del Natale di Roma, il 21 aprile, ha preso spazio tra le cronache nazionali la determinazione con la quale il sindaco della Capitale, Roberto Gualtieri, ha dichiarato di voler andare avanti nella realizzazione del termovalorizzatore, nonostante le inevitabili critiche e opposizioni. Una scelta coraggiosa e responsabile, anche se sicuramente impopolare, ma che ha alimentato la fiducia di chi, per anni, ha auspicato la rottura delle “catene del consenso” da parte del primo cittadino di Roma per il superamento di alcuni problemi strutturali della città. Il dibattito è solo all’inizio, ma è forse il segnale di un nuovo approccio, più decisionista e pragmatico, in linea con il modello Draghi.