La riforma della Giustizia di Draghi riaccende lo scontro politica-magistratura

Il Consiglio dei ministri (Cdm) del 22 luglio ha dato il via libera a procedere con la fiducia sulla riforma della giustizia del Guardasigilli Marta Cartabia, come da richiesta del primo ministro Mario Draghi. Un gesto, quest’ultimo, pregno di significato politico.

Il tema della riforma è tornato prepotentemente alla ribalta nel corso dell’ultima settimana, aperta dall’incontro fra il capo del governo e il nuovo leader politico del M5s – Giuseppe Conte – e contrassegnata dall’emergere di considerevoli resistenze da parte del Movimento verso un provvedimento che di fatto costituisce un colpo di spugna ai danni di quanto realizzato a suo tempo dall’ex ministro Alfonso Bonafede.

La riforma Cartabia arriverà in aula il 30 luglio. Per Draghi la ragione della fiducia sta nella necessità di rispettare l’impegno assunto nei confronti delle istituzioni europee – che è la precondizione per godere della messe di miliardi destinati all’Italia nell’ambito del recovery plan. È bene non perdere mai di vista il contesto entro cui si dipanano le riforme dell’attuale governo e le implicazioni di eventuali ritardi nell’iter di approvazione.

Per questo il premier ha concesso al M5s solo qualche ritocco “tecnico”, purché condiviso con il resto della maggioranza e senza stravolgere l’impianto del provvedimento scritto da Cartabia. Dopodiché, la fiducia farà automaticamente cadere gli oltre 900 emendamenti presentati in questi giorni dai Cinquestelle per modificarla. Un atteggiamento paradossale quello dei parlamentari grillini se raffrontato al via libera al testo dato dai ministri M5s in sede di governo.

Il punto è che Draghi non ha nessuna intenzione di cedere l’iniziativa a quanti speravano di affossare la riforma attirandola nelle sabbie mobili del semestre bianco che si apre il 3 agosto. Così come di esporre l’agenda del suo esecutivo alla tattica di logoramento e di ricatto adottata da forze politiche ancora in crisi di idee e con leadership incerte.

Di qui – oltre alla richiesta di fiducia – precisazioni perentorie come quella sul non cercare “sacche di impunità” ma “processi rapidi e tutti i colpevoli puniti”. Oppure la volontà di andare fino in fondo applicando se necessario la dottrina delle “maggioranze a geometrie variabili”, consapevole di non poter godere sempre e comunque del consenso di tutti i partiti presenti in Parlamento. A maggior ragione su un tema storicamente divisivo come la giustizia.

Intanto dal Consiglio superiore della magistratura è arrivata una prima bocciatura della norma sulla improcedibilità presente all’interno della riforma, che nel complesso è riuscita a ricompattare a tempo di record il mondo delle toghe altrimenti dilaniato al suo interno. Una notizia di un certo rilevo anche perché era dai tempi dei governi Berlusconi che non si registravano rapporti tanto tesi fra il Csm e un ministro della Giustizia.

Sul punto sarà utile soffermarsi un momento. Per lunghi anni ci era stato raccontato che in Italia non esistesse una contrapposizione a tutto campo tra politica e magistratura, ma che riguardasse soltanto alcuni agglomerati più o meno virtuosi e traviati di questi due pilastri della nostra Repubblica (al lettore la facoltà di associare come meglio crede i sostantivi con gli aggettivi).

Adesso, invece, una riforma della Giustizia che viene votata in Cdm da tutti i ministri in maniera unanime – a loro volta espressione di una maggioranza mai vista prima in Parlamento – è sferzata dalle critiche giuridiche e sui suoi effetti operativi provenienti da parte dei magistrati. Facendo esplodere la tensione istituzionale con il governo e segno che forse, dopotutto, un problema con la politica esisteva a prescindere dal colore degli interpreti.

Il fatto è che una delle peculiarità del nuovo corso inaugurato da Mario Draghi – anzi, con ogni probabilità è proprio la più importante – è che a Palazzo Chigi siede un presidente del Consiglio che non ha paura di assumersi la responsabilità delle sue decisioni politiche. Consapevole che la mediazione, l’ascolto e il confronto sono il sale della democrazia, a patto di non farne una prassi che si autoalimenta producendo immobilismo e finendo per soffocare il Paese sotto i veti incrociati dei suoi infiniti centri d’interesse.