Cop26: tra dichiarazioni e assenze strategiche

“The Methane Moment”, un appellativo che già spopola tra gli ambientalisti, ma è proprio così che è stato definito il prossimo decennio. Durante il summit della Cop26, ospitato dalla Gran Bretagna a Glasgow, i 105 Stati firmatari del Global Methane Pledge si sono impegnati a tagliare le emissioni da metano di un terzo: i Paesi aderenti, che insieme riuniscono il 70% del Pil globale, sono quindi pronti a mantener fede agli impegni entro il 2030, e ridurre di 0.2 gradi la temperatura entro il 2050.

Ma più che una maratona, la corsa all’obiettivo sembra più una staffetta: seppur le intenzioni siano delle migliori, e necessarie soprattutto per salvare un ecosistema già altamente destabilizzato, gli Stati non hanno sottoscritto obiettivi individuali per raggiungere l’impegno collettivo della riduzione al 30%. Sarà che, evidentemente, la battaglia al surriscaldamento globale trascina con sé diverse sfaccettature delle competizioni geopolitiche.

Una gara a voler dimostrare chi si impegna di più, questa almeno sembra essere l’ottica di Washington che non ha risparmiato commenti riguardo le assenze di Russia e Cina soprattutto. Ma se il patto a trazione americana ed europea mira alla riduzione del rilascio di metano, bisogna considerarne anche le motivazioni: infatti, focalizzarsi su queste emissioni significa ridurre più rapidamente gli indici del surriscaldamento globale, ma perché sostanzialmente il metano è destinato a durare nell’atmosfera solo 12 anni, un ventesimo in confronto dell’anidride carbonica. Risultati più veloci, quindi, nel breve termine. Il che sarebbe già un grandioso passo avanti, gloriosamente già ostentato dal presidente americano Joe Biden, che sta tentando di catalizzare l’attenzione sulla svolta di questo accordo forse anche per distogliere gli occhi dai problemi domestici dello scontro fra moderati e progressisti sull’agenda in merito ai rifinanziamenti sociali ed ambientali.

Ma dal summit di Glasgow emerge anche una più consolidata partnership “strategica”, come amano definirla i protagonisti, tra Russia e Cina, nonché i grandi assenti anche del G20 romano. I rispettivi leader non escono dai loro confini da gennaio e a suon di assenze rinnovano un’alleanza per antitesi all’ordine mondiale guidato dagli Usa. Sul cambiamento climatico Pechino e Mosca convergono sui principi delineati, ma ne spostano la deadline per il conseguimento al 2060: serve tempo, dichiarano Vladimir Putin e Xi Jinping che si sostengono discretamente, perché di fatto ognuno pensa per sé, ma non si intralciano a vicenda. Affascinando forse anche l’India, terzo inquinatore del mondo, che sposta la data della neutralità climatica al 2070.

Un vertice, quello di Glasgow, che continua a rilasciare dichiarazioni siglate ad alternanza dove però gli assenti sono sempre i maggiori inquinatori. Se gli Usa, infatti, hanno guidato il patto contro il metano, dall’altro lato non hanno però siglato lo stop all’uso del carbone: in buona compagnia, ovviamente, di Cina e India. Questi ultimi, in primis, ospitano quasi la metà degli impianti a carbone attivi o in fase di costruzione in giro per il mondo e se Pechino, dal canto suo, si è impegnata a fermare i finanziamenti di centrali all’estero, certo è che non ha contemplato l’idea di fermare l’estrazione di carbone in casa. E lo stesso vale per l’India, che attualmente ha in cantiere circa 28 centrali.

Al dunque, durante il summit della Cop26 si sono individuati i problemi più evidenti, anche perché chi fossero i “cattivi” era già noto. Ma gli Stati proseguono individualmente, ognuno con tempistiche differenti dettate comodamente dalle evidenti risorse differenti, che siano di natura economica o politica. E c’è quindi chi punta sulla riduzione di metano, chi sullo stop al carbone e chi osserva gli schieramenti intenti ad ostruire le industrie dei protagonisti: ed è noto che ci sia l’emergenza climatica, ma c’è anche la competizione geopolitica.